La libertà di essere


LIBERTA’ DI “ESSERE”

 

Un buon Maestro è colui che, ripetendo l’antico, è capace di trovarvi aspetti nuovi.”

Confucio

 

In “Cosi parlò Zarathustra” ed in particolare nell’opera postuma “La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori” del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, viene teorizzato, e successivamente ripreso, il concetto di “Volontà di potenza”(Wille zur Macht). Per il filosofo la volontà di potenza rappresenta la spinta del cambiamento secondo cui “L’Uomo deve continuamente aggiornare il suo punto di vista e mai fissarsi su una presunta verità pretendendo che sia vera, poiché in tal modo negherebbe la pulsione vitale del cambiamento”, la volontà che trascende se stessa e rinnova i propri valori.”

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“Alla potenza della creatività deve succedere di volta in volta il suo annientamento, per poter rinascere di nuovo: ogni verità appena raggiunta è già una non-verità, ogni desiderio di approdare a un traguardo definitivo deve disconoscere il traguardo medesimo, per non restare imprigionato nelle forme che esso stesso produce.” Seppure azzardato, il parallelismo tra ottica nietzschiana e visione taoista/buddhista della verità come oggetto e fulcro di trascendenza di se appare quanto mai accostato.

Ma quale allora può essere il nuovo collegamento tra Nietzsche e le arti marziali? Rispettando la reale visione d’insieme del filosofo, i collegamenti potrebbero essere tanti e tali quanto taoismo, buddhismo e arti marziali cinesi. Facendo però uno sforzo retrospettivo e forzato, ci si può soffermare a pensare su come oggi nel vasto campo delle arti marziali odierne, la “Volontà di potenza” sia quanto mai presente. Seppur non in senso prettamente nietzschiano, il quadro odierno è alquanto visibile.

La spinta “all’autoaffermazione”, di fantomatici insegnanti, istruttori, maestri e gran maestri, ha generato un vera e propria giungla commerciale. La spinta al fanatismo per Sistemi o Insegnanti ha prodotto come risultato scarsa etica marziale (poco Wude), continui conflitti di “potere” ed eccessivo “autoaccentramento”. L’incoerenza tra ciò che si racconta agli allievi e ciò che viene dimostrato dai comportamenti è evidente. Un esempio è l’utilizzo del termine “tradizionale”, tralasciando “kung fu” “difesa personale” “granmaestri” etc… Cosa c’è di tradizionale nella gara all’apertura di corsi e scuole nelle varie zone del Paese o addirittura nelle varie zone della stessa città? Cosa c’è di tradizionale nel fare dei corsi istruttori con gente con cui si è a contatto una volata al mese? Forse che tutti questi “maestri” si preoccupano della salvaguardia del proprio stile? Forse avere tante scuole sotto un unica bandiera e guida, esprime garanzia di successo ed efficacia tecnico-marziale? Autoaffermazione, egocentrismo, commercializzazione. Ad ognuno la sua risposta! Ma quale è il risultato di tale movimento? A volte ci sono allievi che raggiungono un buon livello di consapevolezza e che scappano dal mondo delle arti marziali, altre volte praticanti che continuano a girovagare da un corso all’altro in cerca di una verità (o almeno serietà!) in un limbo senza fine. La semplicità dell’arte è espressione della sua qualità. Ma la qualità dell’arte è il fine di un qualunque artista marziale e non. Ma dov’è la qualità oggi? Dove è realmente possibile parlare di professionalità?

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Chiunque abbia studiato seriamente le arti marziali, sa bene che esiste un insegnamento imprescindibile, che va oltre le scuole, gli stili, i maestri o le federazioni. E’ il rispetto per quella che io chiamo la “Libertà” di essere. Libertà di essere e non di appartenere. Libertà da schemi e condizionamenti. In particolare, l’ arte marziale tradizionale cinese da secoli ha intrecciato la sua storia a quella del taoismo, del buddismo e del confucianesimo. Sono così stati creati, con il passare del tempo, codici etici e comportamentali per i praticanti. Tuttavia un vero maestro, sa bene che stili, sistemi, nomi, i gradi o i titoli riflettono solo una realtà apparente e fine a se stessa. La pratica reale con il passare del tempo e del lavoro continuo porta alla visione di un orizzonte meno netto e definito delle stesse tecniche marziali. Ossia l’uomo, l’individuo diviene punto focale della pratica e non dovrà più adattarsi allo stile praticato, lo stile sarà solo un appendice dell’uomo in quanto tale. E’ qui che la “pulsione vitale del cambiamento” di Nietszche, l’impermanenza e il non-agire di buddisti e taoisti risultano vertice del più profondo degli insegnamenti dell’antica arte marziale cinese.

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Non tecniche segrete o metodi da fachiri, semplicemente “libertà di essere” in equilibrio e armonia con se stessi, quindi di conseguenza un ulteriore beneficio al proprio gruppo di appartenenza e civile. In un epoca in cui politica, società, relazioni umane appaiono scisse e frantumate da fratture di profondo significato esistenziale, in fondo anche questo piccolo ambito delle arti marziali riflette il profondo animo umano di chi pratica.

In fondo tutto quello che ho scritto non ha l’intento di riassumere alcuna verità, ma vuole solo essere uno spunto di riflessione per chiunque voglia entrare in questo mondo, per tutti i praticanti e per coloro che hanno praticato.